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Base di ricerca stellare di Aràia, Nebulosa di Orione, anno stellare 12.594
Emra picchiettò il dito contro il vetro e la cosa che c’era dentro reagì allo stimolo con una torsione del corpo, ruotando parte della sua massa violacea ed estendendo una protuberanza nella sua direzione, come una persona che avesse appena girato la testa.
I piedi di Emra erano ben al di là delle linee rosse che delimitavano l’area di sicurezza. Erano state poste in opera dal personale militare di stanza alla base, secondo un complicato quanto stupido regolamento che teoricamente doveva impedire ai ricercatori civili di finire in pasto ai pericolosissimi Alieni, qualora questi avessero deciso di ribellarsi alla propria prigionia e mangiare l’intero team di ricerca, compresi gli studenti.
Emra guardò verso la cosa, precisamente verso la protuberanza che puntava verso di lui, come se potesse leggerne l’espressione. Provò a reclinare la testa e quella lo imitò.
«Dottore! Se non le spiace siamo pronti per cominciare.»
Si girò divertito verso Ines, scuotendo la testa mentre tornava da lei ben al di qua delle linee rosse e anche di quelle gialle (il loro significato tuttora gli sfuggiva, nonostante un Tenente glielo avesse pazientemente spiegato con dovizia di particolari e molti gesti rassicuranti). Ines era la migliore assistente che avesse mai avuto, una giovane straordinariamente intelligente e dotata, nonché di gradevolissimo aspetto, così gradevole che era disposto ad accettare di essere ripreso come un bambino che avesse appena rubato gli elettrostimolatori dei genitori.
Ines, in particolare, non tollerava che lui violasse i protocolli di sicurezza, nonostante le avesse spiegato un miliardo di volte che quelle cose erano del tutto innocue finché rimanevano confinate nelle vasche di contenimento, da cui non sarebbero potute uscire nemmeno se fossero state armate di bombe ed esplosivi. Quei “vetri” trasparenti erano in realtà dei polimeri dotati di altissima resistenza e resilienza, dieci volte più duri di qualunque cristallo a base di carbonio e praticamente impossibili da flettere o da corrodere. La metaforica botte di ferro…
«Abbiamo calibrato bene i sensori questa volta?» le chiese però, sperando che il cambio di argomento fosse sufficiente a placarla.
«Sì, dottore. Tutte le frequenze da lei suggerite saranno sondate col minimo possibile errore consentito dai principi di indeterminatezza.»
«Interferenze?»
«Filtrate al meglio delle nostre attuali conoscenze di fisica cosmica e quantistica.»
«Per nostre intendi…»
«Conosciute al genere umano, dottore.»
«Bene. Mi sembra un ottimo lavoro.» Emra non elargiva mai grandi complimenti; per far lavorare bene le persone dovevi sempre lasciare intendere che c’era qualcosa che si poteva fare meglio o più velocemente, o entrambe le cose. «E che mi dici del nostro pubblico?»
«Pubblico, dottore?»
«Non aspettavamo quella scolaresca, quella che doveva assistere all’esperimento?»
«Sta parlando dei dottorandi dell’istituto Otamendi?»
«Sì… forse erano quelli.»
«Attendo la sua autorizzazione per dare il via alla diretta.»
«Bene. Procediamo, allora.»
«Vuole revisionare i parametri un’ultima volta?»
«Ines…» le disse abbozzando un sorriso «se li revisioniamo di nuovo andremo oltre il principio di indeterminatezza di Akkadi, non trovi?»
«Non trovo come si applichi a questa situazione, dottore.»
Emra si girò ridacchiando.
«Ricordi di rispettare l’area di sicurezza durante l’esperimento, per favore.»
«Ma certo, ma certo…» In verità se n’era già dimenticato, ma a che serviva ammetterlo? «Quando vuoi tu, mia dolce assistente.»
Ines non rispondeva mai a quelle piccole provocazioni, né mostrava di gradire o non gradire i complimenti, velati e non, che lui le rivolgeva.
“Forse è anche per questo che mi piace…” pensò mentre si rassettava al meglio nei secondi prima della diretta: perché è una sfida.
«Collegamento aperto, dottore. Parli pure.»
Emra sapeva che a ragionevole distanza, abbastanza vicino da permettere ricezione ottica o elettronica, si trovava circa una ventina di giovani promesse della scienza, accuratamente selezionate e istruite dall’istituto Otamendi, il quale teneva al fatto che i suoi migliori soggetti provassero delle esperienze di prima mano nella più importante stazione di ricerca di tutto il settore. Gli stava bene, purché non lo intralciassero.
«Bentrovate, giovani e caparbie menti di domani!» disse ad alta voce e con un gesto teatrale rivolto alla paratia posteriore del laboratorio, dove sapeva svolazzare la maggior parte delle microcamere. «So che per voi questo è un momento di grande emozione e interesse, ma devo ricordarvi che prima di tutto viene la sicurezza! Abbiamo a che fare con una forma di vita altamente pericolosa e aggressiva, che ha già sterminato innumerevoli milioni di esseri umani in ogni settore della galassia.» Buttò l’occhio verso Ines sperando di vedere una qualche reazione, gli sarebbe bastata anche un ruotatina di testa o un piccolo sbuffo, ma niente. «Per cui fate attenzione e non portate alcuna microcamera o sonda al di là delle linee di sicurezza, gentilmente poste in opera dal personale dell’EFI sotto il comando del Maggiore Dison; vi ricordo inoltre che è consigliato abilitare i filtri sonori dei vostri apparecchi ricevitori e impostarli almeno sul livello 4. Ogni mancanza di parte vostra nel rispettare queste restrizioni verrà punita con l’esclusione dal programma e una nota di demerito che trasmetterò personalmente ai vostri tutori. Bene… se non ci sono domande, possiamo cominciare.»
Non c’erano mai domande, ovviamente. Emra fece un cenno a Ines e…
«Professore? Professor Arkàdiev, mi scusi.»
Emra si bloccò col braccio a mezz’aria. La voce proveniva da dietro di lui, da una delle microcamere ancora stupidamente dotate di altoparlanti nonostante lui avesse insistito perché quel modello venisse eliminato e gli autori del progetto dati in pasto alle sue cavie (ammesso che mangiassero). Ines, in quel momento, decise di concedersi il più piccolo dei sorrisi.
Emra maledisse il giorno in cui aveva acconsentito a quella pagliacciata e si girò stampandosi in faccia il suo sorriso più gradevole. «Mi dica, signorina…»
«Gwen… Gwen Oskovic, professore. E… grazie per la sua pazienza.»
Almeno era educata, e tutto sommato aveva una bella voce. Chissà dal vivo come si presentava? «Dica pure, Gwen. La ascolto» la esortò.
«Mi domandavo in che modo il bombardamento neutronico a cui sottoporremo il soggetto alimenterà le reazioni organiche in quella che lei chiama la corteccia sub-sensitiva. L’elettrostimolazione non sarebbe più efficace?»
«Naturalmente. In una forma di vita a base di carbonio, come noi» concesse Emra, lanciando un’occhiataccia in direzione di Ines che significava: “Ma non potevi almeno assicurarti che fossero minimamente preparati?” «Ma come lei naturalmente sa, signorina Oskovic, la struttura organica della specie aliena 9-4-89-K è composta principalmente da Silicio e Germanio, con minori ma rilevabili quantità di Stagno e lievissime tracce di Piombo, e l’attuale teoria sui loro processi cerebro-sensoriali (la mia teoria) colloca questi ultimi nello strato più profondo della loro corteccia sensitiva, che come lei ha giustamente ricordato è estesa a tutta la forma della creatura e non a un organo interno precisamente individuabile; si tratta di una struttura così complessa che a confronto il nostro primitivo cervello umano è…»
«Professore… professore, perdoni se la interrompo!» Emra si trattenne dallo stringere i pugni. «Mi chiamo Gillian Strauss, professore. Vengo da Calipso.»
E che diamine me ne dovrebbe…
«Ritiene che l’estensione della sub-corteccia riguardi tutte le varianti della specie 9-4-89? E sarà possibile assistere a degli esperimenti in tal senso?»
Emra continuava a sorridere. Era il suo sorriso migliore, quello che sfoderava davanti alle platee di personaggi ignoranti e pieni di soldi. Quel sorriso diceva: “Grazie per quest’eccellente domanda! Vedo che lei è uno che se n’intende, mica come certe altre persone…”
Con quel sorriso Emra disse: «Mio caro signor…»
«Strauss, professore! Gillian Strauss.»
«… mio caro signor Gillian Strauss, se con il termine varianti si riferisce alle sub-unità insettiformi catalogate come sub-specie 9-4-89-00X e disgraziatamente note negli ambienti non accademici come “spaccacroste”, mi permetto di reindirizzarla alla sezione beta, livello 8, sub-livello 46 di questa stessa struttura. Lì troverà abbondanti soggetti su cui poter condurre tutti gli esperimenti che riterrà degni della sua attenzione, inclusi il pungolamento o l’affettamento mediante lame affilate e il disturbo sonoro ottenuto cozzando le pareti trasparenti delle vasche di contenimento con i sedili del laboratorio, possibilmente tenuti per lo schienale e con entrambe le mani, ma la prego di non interrompermi mai più mentre sto parlando: il mio tempo è prezioso e con lei ne ho già perso fin troppo.»
Il silenzio di tomba che ottenne fu gratificante. Non guardò appositamente verso Ines, che sicuramente si era limitata a riservargli una delle sue occhiate severe: in quattro anni standard di collaborazione non era mai riuscito a impressionarla. Si prese i suoi attimi, lasciando che il fastidio che gli aveva procurato quel bamboccio di un dottorando defluisse da solo.
Varianti… quei cosi erano stati chiamati 9-4-89-00X per il semplice motivo che ogni volta che ritenevi di averli catalogati tutti te ne ritrovavi altrettanti di diversi, e nessuno che avesse un qualche tratto di interesse; erano un sottoprodotto, un rigurgito, generati in modo totalmente casuale e con un unico scopo: fare le cose a pezzi. Se li era sorbiti per quindici anni, finché lui stesso non aveva portato una svolta in quelle sterili ricerche, dopo il ritrovamento della variante 9-4-89-K che ora veniva chiamata “cerebro”: apparentemente un ammasso informe di carne viola privo di scopo, ma la cui realtà era ben diversa…
«Dunque, dov’eravamo rimasti?» riprese come se nulla fosse accaduto. «Oh, sì… come dicevo, il motivo per cui il bombardamento neutronico è così importante, mia cara Gwen, è che io ritengo assai probabile che i processi cognitivi di questi Alieni avvengano al livello di quelle pochissime ma fondamentali molecole a base di Piombo, estremamente pesanti e perciò estremamente lente, costrette quindi a ricorrere a metodi alternativi di trasmissione e immagazzinamento delle informazioni. Ovvero…»
Emra attese, sapendo che questa volta nessuno avrebbe preso la parola. Stava per raggiungere il climax del suo discorso quando…
«Ovvero i cambiamenti nel peso atomico dovuti al decadimento degli isotopi» disse la voce di Ines dietro le sue spalle, voce in cui si coglieva una distinta nota di soddisfazione.
“Questi sono i momenti in cui non saprei se sbatterla a calci fuori dal mio laboratorio o portarmela a letto” si disse Emra sforzandosi di controllarsi. «Precisamente, mia dolce Ines» concesse infine. «E ora, se non ti dispiace, vorresti operare i comandi dell’acceleratore di neutroni e dare inizio all’esperimento?»
«Professore, un momento!» era ancora la dolce Gwen. «Se la sua teoria è corretta, non ritiene che un bombardamento neutronico potrebbe causare un improvviso aumento della capacità cognitiva e razionale del soggetto? Non potremmo renderlo più… intelligente?»
C’era una nota di paura in quella domanda, paura genuina.
«Quando si guarda oltre l’orizzonte verso l’ignoto, mia cara Gwen» disse allora Emra facendosi solenne «si rischia sempre qualcosa. Ma se abbiamo lasciato il Pianeta Madre e conquistato le stelle è perché alcuni di noi hanno avuto il coraggio di correre quel rischio.» Poi, a voce più alta: «Ricordo a tutti di tenere le microcamere distanti dalla vasca di contenimento e, per nessuno motivo, di potarle oltre le linee gialle e rosse. Ines, tesoro… siamo pronti?»
«Quando vuole lei, professore.»
«E allora… cominciamo!»
L’acceleratore entrò in funzione e una pioggia di neutroni invisibili inondò la vasca trasparente. Poi, di colpo, l’intero laboratorio si spense.
Gillian, esteriormente, era l’emblema della calma. Forse un osservatore attento avrebbe notato un lento e metodico raspare delle sue unghie sul vetro lucido di quella postazione antiquata, o il respiro, fin troppo regolare e ritmato, che gli usciva dalle labbra in brevi soffi e a labbra strette. Ma a parte questo, nessuno avrebbe mai detto che dentro di sé stesse ribollendo di rabbia peggio di una stella a neutroni.
“Non mi sentivo così umiliato da quando… Ma brutto pezzo di sterco spaziale infilato in un rottame prestellare! Ma chi cazzo credi di essere?”
Gillian guidò la sua microcamera molto vicino all’orecchio del professor Arkàdiev; tanto che se avesse massimizzato l’ingrandimento, avrebbe potuto distinguere i granuli di cerume che ostruivano il timpano. Le sue dita stavano già ruotando sul supporto lucido sotto di esse per aumentare al massimo il volume quando, naturalmente, i protocolli di sicurezza gli tolsero i comandi e pilotarono la microcamera a distanza.
Rassegnato si disse che glie l’avrebbe fatta pagare in qualche altro modo, prima o poi. Ma l’attenzione di Gillian a quel punto fluttuò, e così fece anche la sua microcamera, verso il lato del laboratorio dove stavano le apparecchiature di controllo, quello occupato da…
Gillian rimase imbambolato, con le dite immobili sui comandi, incapace di distogliere lo sguardo.
“E tu da dove vieni…?”
Era una giovane donna, giovane al punto che non presentava i tratti tipici del trattamento ringiovanente. Era alta di statura, occhi verdi e viso affilato, e aveva un colore di capelli che ricordava le tinte classiche ma risultava in qualche modo meno acceso, come se fosse… vero. Cazzo, sì! Quella ragazza portava il suo colore naturale. Chi lo faceva più?
Arkàdiev nel frattempo stava intrattenendo la dolce e graziosa Gwen Oskovic la cui interruzione, neanche a dirlo, non lo aveva urtato minimamente. Gillian aveva sentito parlare di Arkàdiev e della sua nota predilezione per le allieve di sesso femminile, ma mai avrebbe pensato che quel pallone gonfiato sarebbe arrivato a tanto.
Cercò di rilassarsi, di distendere i muscoli del collo che, lo sentiva, erano decisamente troppo tesi, e si concesse di indugiare ancora un attimo sul viso e sul corpo dell’assistente bionda.
L’esperimento stava per cominciare. Gillian imitò i compagni attivando i filtri molecolari e si concesse anche la grafica amplificata; con quella configurazione le lenti gli avrebbero mostrato delle immagini convincenti dei neutroni altrimenti invisibili che avrebbero colpito la creatura che stava oltre i vetri, nella vasca di contenimento, e tutte le possibili reazioni con il suo corpo alieno. I più puritani sconsigliavano la grafica amplificata, definendola un’inutile sceneggiatura, ma a Gillian non dispiaceva un po’ di scenografia, specialmente considerando che era costretto ad assistere all’esperimento con indosso un casco (un casco!). Quando lo aveva scoperto non ci aveva voluto credere: gli avevano assicurato che perfino qui ormai erano tutti dotati di snodo corticale!
«Professore, un momento!» chiedeva intanto la solita Gwen. «Se la sua teoria è corretta, non ritiene che un bombardamento neutronico potrebbe causare un improvviso aumento della capacità cognitiva e razionale del soggetto? Non potremmo renderlo più… intelligente?»
Era la domanda più stupida che Gillian avesse mani sentito, ma Emra Arkàdiev non se ne mostrò minimamente infastidito e ne approfittò per mettersi un altro po’ in mostra, parlando di orizzonti ignoti, coraggio e simili fesserie.
Gillian stava scuotendo la testa quando si accorse che Gwen lo stava fissando. Aveva il visore alzato e nei suoi graziosi occhi blu scuro c’era una preoccupazione vera, che lo stupì. Automaticamente si esibì in quello che sperava fosse un sorriso rassicurante, che però non poteva essergli riuscito bene visto che aveva ancora gli occhi coperti. Nelle sue orecchie la voce del professor Arkàdiev stava intanto invitando Ines, la bellissima assistente, ad attivare i comandi dell’acceleratore.
Gwen allora riattivò in tutta fretta il suo visore, proprio mentre Arkàdiev dava il segnale di inizio come se si trattasse di una corsa, ma un attimo dopo tutte le microcamere smisero di trasmettere.
Ci furono alcuni attimi di visibile perplessità fra i venti e più giovani dottorandi. Le postazioni erano disposte in cerchi concentrici rialzati come in un anfiteatro a base circolare e Gillian vide parecchi colleghi intenti a tastare i propri visori e caschi alla ricerca di qualche interruttore o comando che potesse ripristinare il segnale, alcuni cominciarono a borbottare e a guardarsi l’un l’altro aprendo le braccia.
Dopo qualche minuto ci furono i primi commenti poco amichevoli, nei confronti del professore (questi fecero molto piacere a Gillian), delle apparecchiature (ma come poteva una struttura come la Base di Aràia essere ancora dotata di questi sistemi prestellari…), della sfortuna e di tutto quanto.
Gillian stava per togliere i supporti del visore, che cominciavano a dargli fastidio, quando davanti ai suoi occhi apparve un messaggio. Era di Gwen: “Le microcamere funzionano. Te ne sei accorto?”
E perché lo stai scrivendo proprio a me? si chiese, prima di rendersi conto che aveva ragione.
Il segnale non si era interrotto e i comandi delle microcamere funzionavano ancora, semplicemente non c’era più nulla che potessero trasmettere, non la luce o gli infrarossi degli interni del laboratorio e nemmeno i neutroni che sarebbero dovuti piovere dall’acceleratore: dall’altro lato era buio pesto e non si sentiva nulla.
“Dev’essere successo qualcosa dall’altra parte. Tu senti qualcosa?” ancora Gwen.
Gillian stava per rispondere che non sentiva nulla nemmeno lui quando le luci della sala, contemporaneamente ai quadri comandi e a tutte le apparecchiature, lampeggiarono ripetutamente fino a spegnersi e dei rumori molto forti, provenienti da uno degli ingressi secondari, dissero loro che qualcuno, o qualcosa, stava cercando di entrare.
Ci fu rumore di piedi, di braccia e gambe e teste sbattute, imprecazioni e tonfi di cadute. I venti dottorandi cercarono di precipitarsi verso dove sapevano trovarsi l’uscita, qualcuno aveva con sé delle fonti di luce ma questo, probabilmente, non faceva altro che contribuire alla confusione generale. Gillian si trovava in seconda fila e cercò a tentoni la via di fuga, ma calcolò male e sbatté il ginocchio. Qualcuno gli mise una mano sulla testa nel tentativo di usarlo come appoggio, ma scivolò con un’imprecazione. D’un tratto una mano prese la sua, era la mano di una ragazza.
«Vieni!» disse la voce di Gwen Oskovic.
«Ok» blaterò Gillian, stringendole il polso e lasciandosi guidare.
Fu colpito, spinto e tirato per almeno un minuto, ma la mano di Gwen era sicura e lo guidò lontano dal tumulto. Sentì i soffi delle porte che si aprivano e la cacofonia dietro di sé cambiare tono mentre altri si rendevano conto che qualcuno aveva trovato l’uscita, prima che tutti si precipitassero dietro di loro.
«Da questa parte! Tenetevi per mano e seguite la mia voce» gridò Gwen sopra il frastuono.
«Dove si va? Che facciamo?» chiese Gillian.
«Intanto torniamo verso i nostri alloggi, che dici?» propose Gwen con la voce che le tremava. «Io non conosco molti altri percorsi e tu?»
Gillian ne conosceva ma non credeva che sarebbero stati utili, e poi era lei che ci vedeva. Chissà come faceva? Doveva avere un visore personale, o magari degli impianti oculari… non sapeva se fosse ricca di famiglia.
Gwen se lo tirò lungo la strada che conosceva e Gillian si disse che era proprio una tipa tosta, per reagire con tanta freddezza.
Non voleva pensare a cosa poteva essere successo. Sapeva che alla base di Aràia si eseguivano sperimentazioni sugli Alieni per conto dell’esercito e sapeva che c’erano molti campioni vivi, soprattutto ai livelli inferiori, ma era meglio non pensarci, era meglio continuare a seguire Gwen, che sembrava sapere esattamente cosa fare, anche se le tremava la voce e chiedeva sempre il suo parere. A un tratto però la ragazza si fermò.
«Che succede?» chiese lui mentre il peso di quelli dietro quasi lo schiacciava.
«Vicolo cieco! Che cosa facciamo?»
Gillian era cieco e compresso dal peso di altre diciotto persone, sempre che non ne avessero perso qualcuno.
«Nessun altro ha un visore?» gridò Gwen disperata.
«Ma dove cazzo siamo?» arrivò in risposta dalle retrovie.
Erano evidentemente in una stanza molto piccola e l’aria cominciava a diventare pesante. Forse sarebbero potuti tornare indietro ma probabilmente gli ultimi della fila non erano d’accordo, infatti continuavano a spingere e a imprecare perché volevano andare avanti. Dietro di loro, lontani, si sentiva ancora quei suoni.
«Mi dispiace… mi dispiace…» diceva Gwen, singhiozzando. «Credevo di aver memorizzato la strada.»
Gillian intuiva che si era rannicchiata davanti a lui e stava facendo del suo meglio per proteggerla dal peso delle altre persone, ma si stava stancando in fretta.
«Ehi! Ehi, è qui! Andate avanti!»
Era un grido terrorizzato. Gillian non sapeva cosa fare e dove andare, sentiva solo che non riusciva più a respirare ma che voleva comunque stare il più lontano possibile da dove era arrivato quel grido. Poi, di colpo, come se si trattasse di un terribile scherzo, l’illuminazione tornò.
Ines entrò nell’ufficio privato di Arkàdiev, passo regolare e cadenzato, espressione neutra, e incrociò le braccia sul petto. Non era sicura di cosa potesse significare quel gesto per il professore, ma lei intendeva veicolare un forte rimprovero.
Emra Arkàdiev, stravaccato in una posa scomposta sulla sua poltrona preferita, che guardava verso le stelle e l’arcobaleno cangiante della nebulosa, stava ridendo come un dissennato.
«Ma li hai visti? Li hai visti?» Aveva le lacrime agli occhi e non riusciva ad asciugarsele. «Non ho mai visto una cosa più divertente in tutta la mia vita. I migliori studenti dell’Istituto Otamendi, le grandi e giovani e un po’ troppo credulone menti di domani. Ah ah ah! Mancava solo che si pisciassero addosso!»
Ines non disse niente.
«Oh, Ines, ti prego. Non puoi dire che non è stato geniale, non puoi!»
Ines sospirò, non si era potuta trattenere.
«Evvia! Dobbiamo pur trovare qualcosa da fare per passare il tempo in questa trappola per topi di una stazione, no? Ines… ti ho mai detto quanto sei bella?» e scoppiò di nuovo a ridere.
Ines chiuse gli occhi e si impose di non sospirare un’altra volta. «Mi dica almeno che se l’era preparata.»
Quello frenò Arkàdiev, per un attimo. «Assolutamente no» disse purtroppo. «L’idea mi è venuta quando quella dolce studentessa mi ha fatto la domanda. Come si chiamava…?»
«Gwen Oskovic.»
«Proprio lei.»
«Qualcuno avrebbe potuto farsi male. Poteva esserci un incidente.»
«Ma non c’è stato, dico bene?»
«No. Per pura fortuna.»
«Sei arrabbiata perché ci sei cascata anche tu, di’ la verità!»
Ines a quel punto decise di ignorarlo ed estrasse il suo strumento universale, un gingillo che si era portata da casa e che aveva la forma di una piccola piramide cava a cui mancava la punta, lasciando che gli ologrammi semitrasparenti si frapponessero fra loro. «Ho riconfigurato il suo scadenzario e riprogrammato i suoi appuntamenti, ho solo bisogno di sapere se intende partecipare alla conferenza del professore James.»
«Neanche per sogno» sbottò Arkàdiev (sentir nominare James lo metteva sempre di cattivo umore, Ines lo sapeva bene). «E continuo a non capire perché usi quell’aggeggio antiquato. Gli impianti corticali qui da noi sono all’avan…»
«Era di mia nonna» tagliò corto Ines. «E mi ci trovo. Posso suggerirle di cambiare idea riguardo la conferenza? I membri della direzione non la prenderanno bene se lei non si presenterà, e lo sa.»
«Che si fottano!»
Ci sarebbe voluto un po’ per convincerlo, Ines ci era abituata. Per ora preferì lasciar cadere l’argomento e portarsi su altre questioni: «L’esperimento andrà ripetuto e dovremo scusarci coi dottorandi.»
«Scusarci?» Arkàdiev recuperò subito il sorriso. «E che cosa dovremmo dire esattamente?»
«Che ci dispiace per i disagi creati dal malfunzionamento e che saremo lieti di ospitarli nuovamente, questa volta assicurandoci che non ci siano interruzioni.»
«È per questo che mi piaci, Ines: tu sei sempre cosa fare. Senza di te sarei perso.»
Ines non rispose e lo lasciò solo, aveva molto da fare. Molto, molto da fare…
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Buone letture!
Dopo aver letto il libro in anteprima, ho apprezzato con particolare gusto questo estratto; mi piacciono i dialoghi e la caratterizzazione del personaggio di Emran. Bravo Davide.