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Installazione mineraria H965 sul pianeta Cronos, ammasso del Centauro, anno stellare 12.453
Il piccolo Emra era seduto per terra nello stanzino vicino all’ingresso. Stava armeggiando con gli ultimi giochi che papà gli aveva portato, ne aveva una montagna, tutti sparsi per quel minuscolo spazio che era il suo piccolo regno. Gli piaceva soprattutto il suono che alcuni di quegli oggetti facevano quando cozzavano fra loro, quel tintinnio metallico piacevole alle orecchie che faceva imbestialire così tanto mamma.
Emra giocava perché si divertiva, ma anche perché così poteva far finta di non sentire le grida che provenivano dalla stanza più grande, quella che era il mondo dei suoi genitori (lì comandava mamma) e dove lui entrava solo come ospite, attento a non disturbare la quiete e il noiosissimo ordine che vi regnavano.
«Non puoi andare avanti così!» urlava mamma. «Quei crediti ci servono, per il nostro futuro, per il suo futuro!»
Di solito era sempre mamma che urlava, papà parlava sempre a voce bassa. A Emra piaceva la sua voce e avrebbe voluto ascoltarla sempre, però a mamma non piaceva e quando lui diceva qualcosa lei gridava ancora di più.
Dei passi. Stavano venendo verso di lui, erano i passi di mamma. La porta si spalancò e lei si sporse a guardare dentro, il lucido ramato dei cortissimi capelli che rifletteva la luce omogenea del soffitto. Gli occhi di lei vagarono per un attimo e poi si fissarono su di lui e sui giochi che aveva in mano, e si spalancarono di rabbia.
«Ancora!» sbraitò all’indirizzo di papà. «Quante di queste cianfrusaglie hai ancora intenzione di portare qui dentro? Ti rendi conto che se le scoprono ci portano via la casa?»
Quella rabbia non era rivolta lui, Emra lo sapeva, ma quando mamma era arrabbiata con papà si sentiva preso in causa. Lui e papà erano una squadra affiatata.
«Tesoro, ti prego… così lo spaventi.»
La mano grossa e gentile di suo padre scivolò delicatamente sulla spalla di sua madre. Lei sembrò intenzionata a mordergliela, ma poi chiuse gli occhi e sospirò a fondo. Quando faceva così, di solito si metteva a piangere.
«Ma non capisci che così peggiori solo le cose? Non lo capisci?» disse con un singhiozzo.
«Voglio che abbia dei bei ricordi, tutto qui.»
«Ma non…»
«E voglio che anche tu li abbia, amore mio.»
La tirò delicatamente e lei lo lasciò fare, finché la sua figura non fu di nuovo sulla soglia, poi cadde in ginocchio davanti a Emra e pianse con le mani sulla faccia.
«Scusami, piccolo mio… mamma è solo tanto stanca e preoccupata. Scusami!»
Emra guardò suo padre. La sua massiccia figura, alta come la porta, li sovrastava con il suo sguardo perennemente gentile. Papà gli fece un cenno d’incoraggiamento ed Emra, all’inizio un po’ riluttante, si avvicinò a mamma e lasciò che lei lo abbracciasse; mentre lo stringeva aveva le guance calde e bagnate.
«Forza campione» disse papà.«È ora di cena.»
Dopo quelle sfuriate mamma si calmava e di solito lei e papà passavano la sera insieme davanti allo schermo piatto, lei con la testa appoggiata sulla sua grossa spalla mentre lui l’accarezzava piano. Emra si piazzava fra i loro piedi, seduto per terra con uno dei suoi giochi in mano, finché non era ora di andare a letto, e questa volta era deciso a rimanere sveglio. Non si sarebbe addormentato come al solito, nossignore!
Il padre di Emra lavorava agli impianti di estrazione, nel blocco 42, sottosezione 634, squadra F. Emra aveva dovuto imparare il nome di quel posto a memoria per ordine di mamma e papà, una delle poche cose su cui si erano dimostrati perfettamente d’accordo, così in caso di emergenza avrebbe saputo come rintracciarli (anche se Emra non aveva ancora capito cosa volesse dire “emergenza”). Papà usciva di casa quando Emra non si era ancora svegliato e rientrava per ora di cena, spesso con un regalo per lui. L’ultimo era stato una “chiave quadri-assiale a bussola” ed era subito diventato il preferito. Mamma invece usciva di casa più tardi, dopo aver fatto colazione con Emra e avergli assegnato i suoi compiti giornalieri (oggi doveva pulire tutta la stanza grande), e rientrava prima di papà, per controllare che lui avesse obbedito.
Quel giorno però papà tornò prima di mamma. Emra si era perso a giocare e non aveva ancora cominciato le pulizie perciò si aspettava di essere sgridato, ma papà era sorridente e lo prese in braccio. «Vieni, campione» gli disse. «Andiamo a fare un giro.»
Fu la giornata più bella della sua vita.
Papà lo portò fuori da casa, fuori dal complesso di abitazioni che Emra aveva visto raramente e mai esplorato a fondo, fuori perfino dall’Alveare 14, il mega complesso (gli spiegò papà) di cui casa loro costituiva solo una piccola, piccola cella e in cui abitavano più di duecentomila persone (Emra non sapeva quanto fosse duecentomila, ma dal tono di papà capì che era tantissimo). Presero una cosa chiamata ascensore: era una strana macchina molto grande che si apriva come una casa ma molto più spaziosa, vuota all’interno, ed Emra pensò che gli sarebbe piaciuto provare a costruirne una coi suoi attrezzi. L’ascensore li portò in basso, molto in basso, cigolando in un modo che gli ricordava i suoi momenti di gioco e quando finalmente si aprì Emra spalancò gli occhi, estasiato.
«Questo è il corridoio principale» gli disse papà tutto contento. «E non capita spesso di vederlo così vuoto, purtroppo.»
Erano in un’immensa galleria che si perdeva in lontananza, illuminata dall’alto; Emra non aveva mai visto un soffitto così alto, non credeva nemmeno che potesse esistere. Ai lati, dove le pareti curve toccavano il pavimento, c’erano due file di grandi cose trasparenti che sembravano uova giganti.
«Quelli sono i treni che ti portano alla tua sezione» spiegò papà. Lo condusse verso uno di quei “treni” a forma di uovo ed Emra si stupì di quanto tempo ci misero per raggiungerlo, scoprendo alla fine che il “treno” era almeno dieci volte più alto di lui anche se da lontano era sembrato piccolo. «Abbiamo un permesso speciale, oggi» disse papà, senza spiegargli cosa fosse un permesso speciale. «Di solito i treni vanno solo a orari prestabiliti o in caso di emergenza, ma ho chiesto qualche favore» aggiunse con aria complice. Si avvicinò, posò la mano su un lettore di impronte e il grande ovoide semitrasparente si sollevò con un forte sfiato che fece prendere uno spavento al bambino, mentre suo padre rideva e cercava di rassicurarlo, rivelando un lungo corridoio tubolare illuminato di azzurro, pieno di strani sedili dotati di cinghie e completamente vuoto.
«Ecco, vieni» gli disse papà, «siediti qui. Ho fatto portare questo apposta.»
Uno dei sedili aveva un altro piccolo sedile poggiato sopra, fissato saldamente. Emra seguì le istruzioni di papà e si accomodò, emozionato, mentre lui gli fissava le protezioni.
«A cosa servono?» chiese Emra, un po’ preoccupato.
«Ora lo vedrai» gli annunciò papà facendogli l’occhiolino.
Appena finito di sistemarlo, suo padre si accomodò accanto a lui e fissò le cinghie del suo sedile, poi lo guardò sorridendo. «Pronto?»
Emra non sapeva per cosa avrebbe dovuto essere pronto, ma annuì prontamente: avrebbe seguito suo padre ovunque ed era eccitatissimo.
«Si parteee!»
E di colpo il terno partì. Emra fu schiacciato contro il sedile mentre le cinghie si stringevano e lo tenevano completamente bloccato. In un primo momento si spaventò, non poteva nemmeno girare la testa per guardare papà, ma poi sentì il suo grido gioioso; non lo aveva mai sentito fare così. Capì che stavano andando molto veloci, e che anche lui si stava divertendo. Cominciò a ridere e lui e papà gridarono assieme quando il treno fece una brusca curva sballottandoli qua e là con la semplice inerzia.
Il viaggio finì fin troppo presto. Il treno rallentò e si fermò, liberandoli dai loro sedili, ed Emra scese a malincuore, scoprendo che faticava a stare in piedi; se papà non l’avesse sorretto sarebbe caduto. Poi uscirono, tenendosi per mano, ed entrarono in un mondo completamente diverso.
Questo mondo era pieno di persone, tutte vestite uguali. Camminavano velocemente e in ogni possibile direzione, guardandoli ogni tanto con curiosità ma andando presto per la loro strada senza più voltarsi; Emra non ne aveva mai viste così tante tutte assieme. Si sarebbe perso nella loro moltitudine, domandandosi dove stessero andando, come fosse possibile che tutti sapessero dove dirigersi e cosa fare e come facessero a non andare a sbattere continuamente uno contro l’altro, se non avesse stretto forte la mano di papà.
Attraversarono quel fiume che sembrava invalicabile e arrivarono a un parapetto più alto di Emra, su cui papà lo issò tenendolo per le braccia e dicendo: «Benvenuto al blocco 42, campione.»
Emra stava guardando il vuoto di un’enorme cavità scura, illuminata dalle luci bianche di decine di livelli come quello su cui stavano loro, aggrappati alle pareti come grossi anelli luminosi.
«Qui siamo al livello 75» disse papà. «È circa a metà del pozzo, forte vero?»
Emra annuì, affascinato dal gioco di luci e ombre prodotto dagli innumerevoli livelli del blocco 42, che sembravano continuare all’infinito sia verso l’alto che verso il basso.
«Che dici campione, vuoi vedere dove lavora papà?»
«Sì.»
«Allora gambe in spalla!»
Presero di nuovo degli ascensori, questa volta molto più larghi e alti, e più veloci. Salirono di un numero di livelli di cui Emra perse subito il conto e arrivarono in un posto esattamente uguale a quello che avevano appena lasciato, ma molto meno affollato. Papà lo condusse ancora per mano, fino a un punto dove un uomo, più basso di papà e con le braccia grosse, li stava aspettando.
«Barca!» lo salutò papà.
«Quindi è questo il piccolo campione!» disse Barca ridendo. Avvicinandosi Emra notò che era sporco di nero sia sulle braccia che sulla faccia. Se l’avesse visto mamma…
«Scusami ancora Bar» rispose papà, «e… grazie.»
«Non dire stronz… ehm… sciocchezze, Hank! La Squadra F resta unita» sentenziò Barca. «Allora piccoletto» disse rivolto a Emra «sai dove siamo? No? Lo immaginavo. Questo qui» disse indicando un buco nel pavimento con dei pezzi di metallo che ne uscivano «è il gancio principale, e ora noi ti mettiamo una bella imbragatura da minatore, così non cadi. Che ne dici eh? Non soffri di vertigini vero?»
Emra era frastornato dalle continue parole di Barca. Si girò verso papà che gli fece un cenno incoraggiante e lasciò che l’altro gli infilasse un vestito con una serie di ganci e lacci, molto stretto.
«Non è stato facile trovarne uno così piccolo, ma Mold si è dato da fare» diceva Barca mentre lavorava. «Il tuo come va, compare?»
«Tutto apposto» rispose papà. «Quando vuoi…»
«Seguimi, campione» disse Barca ad Emra. «E attento a dove metti i piedi.»
Si calarono nel buco, che inizialmente si rivelò solo come uno stretto camino che puzzava di bruciato, ma una volta scesi di qualche metro furono ancora una volta in un mondo nuovo.
Il nuovo mondo questa volta era interamente fatto di roccia scura, illuminata da lampade bianche appese, ed era un mondo in verticale in cui decine di uomini, tutti imbragati, scalpellavano e lavoravano la roccia con una quantità di attrezzi che Emra non avrebbe mai creduto possibile, producendo quel piacevolissimo rumore che lui cercava malamente di riprodurre nella sua stanza dei giochi a casa. Aveva un po’ di paura, paura di cadere, ma la mano rassicurante di papà non lo lasciò mai e anche la presenza di Barca davanti a sé gli infondeva sicurezza.
Tutti gli sorrisero e lo salutarono, tornando però subito al lavoro.
«È ora che anch’io faccia qualcosa» disse papà. «I ragazzi mi hanno coperto ma adesso devo recuperare. Ti va di darmi una mano? Solo… tieni gli occhi aperti per i furetti mangiapietra, sono innocui ma si divertono a fare scherzi.»
Emra non se lo fece ripetere.
Rientrarono a casa molto tardi, più tardi perfino di quando tornava a casa di solito papà, sporchi di fuliggine nera dalla testa ai piedi e felicissimi. Emra era così stanco che quasi non si accorse di essere stato spogliato e messo nel nebulizzatore; la sensazione di calore era così piacevole che quasi si addormentò. Decise in quel momento che tutto ciò che voleva fare nella vita era lavorare come papà, con gli attrezzi sulla parete nera illuminata dalle lampade, e prendere il treno e l’ascensore: voleva diventare un minatore.
Non si accorse di essere stato messo a letto e sentì solo vagamente le voce dei suoi genitori che parlavano. Mamma, per qualche motivo, sembrava triste e papà cercava di consolarla.
«I nostri sacrifici sono serviti a qualcosa, tesoro mio» diceva lui. «Gli abbiamo dato un futuro.»
«E se non ce la facessi?» rispondeva mamma. «E se non riuscissi a lasciarlo andare?»
«Ce la farai, ce la faremo insieme. Avrà una vita migliore della nostra, più lunga e ricca di cose che noi non gli potremmo mai dare.»
Mamma singhiozzava.
«Lui è il nostro dono all’Universo» disse ancora papà. «Vedrai che ci renderà fieri.»
Emra non capiva di cosa stessero parlando, aveva già chiuso gli occhi e il mondo dei sogni lo reclamava. Al mattino non avrebbe ricordato più nulla.
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Buone letture!
Come vedere il mondo (fantascientifico in questo caso) attraverso gli occhi di un bambino 🙂