ANTEPRIMA: The Herem Saga #4 (Diario di un immortale) – parte 3

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Paragrafo 1
Paragrafo 2
Paragrafo 3

Giorno n.27 post-sbarco.
I coloni sembrano adattarsi facilmente al nuovo ambiente e alle nuove condizioni. I compiti loro assegnati tengono occupate le loro menti per buona parte del tempo e la realizzazione di uno spazio ricreativo comune, come sperato, sta facilitando la familiarizzazione reciproca, fungendo inoltre da efficace valvola di sfogo e mitigando gli effetti del duro lavoro e delle non facili condizioni di vita.
Sono lieto di poter annotare che alcune singole personalità stanno fornendo contributi, soprattutto tecnici, superiori alle aspettative e molto utili in termini di adattamento al nuovo ecosistema.
Purtroppo, com’era evidente già nei primi giorni dopo lo sbarco, il territorio negli immediati dintorni della colonia non ha le caratteristiche giuste per sperimentare la coltivazione all’aria aperta poiché, oltre a dover far fronte al basso contenuto di ossigeno (e di conseguenza di CO2), ci ritroviamo ad avere a che fare con un terreno troppo sabbioso e poco fertile. Rilevazioni successive hanno confermato che la situazione è pressoché identica nel raggio dei primi cento chilometri dall’insediamento, almeno sul lato meridionale, dove il terreno è pianeggiante.
Criticità: le colture idroponiche e in vitro possono sostenere la popolazione al suo attuale stato demografico, ma non ne possono coprire un’eventuale aumento.
Prima possibile soluzione: è necessario espandere il raggio di ricerca e mappatura del territorio circostante al fine di individuare un’area adatta all’agricoltura all’aperto e iniziare al più presto le sperimentazioni con i sementi terrestri.
Seconda possibile soluzione: operare una riduzione demografica dell’attuale popolazione al fine di guadagnare il tempo necessario a migliorare le tecniche di coltura già applicabili e migliorarne l’efficienza.
La prima soluzione è di gran lunga preferibile.
Nota personale: il mio impegno nel fraternizzare con la colonia al fine di ridurre il mio senso di solitudine sta dando i suoi frutti, ma temo stia producendo anche degli sgraditi effetti collaterali. Alcuni coloni sembrano non gradire che io fraternizzi eccessivamente con altri coloni, nonostante rifiutino o schivino i miei tentativi di avvicinarli col medesimo scopo. Questi coloni “gelosi” spesso si riuniscono in gruppi privati, i cui membri vengono scelti arbitrariamente, per svolgere delle attività occulte di non chiara natura.
Prima possibile soluzione: cessare ogni tentativo di fraternizzazione con i coloni benevolenti per non incentivare la divisione e l’estremizzazione della popolazione.
Seconda possibile soluzione: agire in contrasto dei coloni “isolazionisti” aumentando il loro carico di lavoro e operando dei ricollocamenti abitativi.
Troverei alquanto sgradito dover ricorrere alla prima soluzione.

Bernard era sudato da far paura. Si erano di nuovo rotti i filtri dell’aria e il condizionamento interno si era bloccato, ancora. Era la quarta volta in dieci giorni.
Posò l’attrezzo con cui stava lavorando e si terse il sudore dalla fronte bagnata, con un braccio altrettanto bagnato. Avere una peluria folta non aiutava di certo in quelle condizioni.
Prima di partire, chissà perché, si era aspettato di arrivare in un posto dove facesse freddo. In fondo nello spazio faceva sempre freddo, no? Invece erano atterrati in mezzo a un fottuto deserto dove, gli avevano spiegato più volte, faceva sì freddo, ma quel cazzo di sole bianco illuminava talmente forte che i muri dei blocchi si surriscaldavano e scaricavano tutto all’interno. C’erano momenti in cui, lavorando, sembrava di soffocare.
A Bernard era sempre piaciuto lavorare. Lui era uno che faceva pensieri cupi, paurosi, e quindi lavorare lo aiutava a non pensare. Era stato così per venticinque anni sulla Terra, fino a quando quel tizio ubriaco non aveva messo in palio il suo biglietto di sola andata per un altro pianeta, dicendo che chiunque avesse risolto il suo indovinello preferito sarebbe partito al posto suo. Il poveraccio sperava di fare bei soldi, invece si era ritrovato spennato e derubato: non era il genere di offerte da farsi in una bettola nei sobborghi di Città del Capo. I documenti del poveretto erano passati di mano in mano per settimane e alla fine, quando Bernard se li era ritrovati fra le mani per puro caso, c’era già una lista di sette morti con cui fare i conti.
Bernard, che non era un idiota, se l’era data a gambe.
Da quando era lì cercava di non pensarci. In fondo, si diceva, chi lo aveva deciso che alcuni dovessero lasciare la Terra e altri no? Non c’erano abbastanza navi per tutti, dicevano. Ma a lui pareva che se ne costruissero di continuo, solo che erano sempre tutte piene e per salirci bisognava fare la richiesta con anni di anticipo. Conosceva gente che ci aveva provato, amici suoi: o si erano ridotti in miseria per poi fallire miseramente, oppure erano finiti al fresco perché avevano cercato di imbrogliare. Lui, però, aveva avuto fortuna e ne era grato.
Solo, aveva sperato che una volta a destinazione avrebbe fatto qualcosa di diverso che lavorare continuamente, e invece eccolo lì. Aveva l’impressione, e non era l’unico, che il carico di lavoro non fosse equamente ripartito, nemmeno alla lontana. E poi c’era un altro problema…
Il Blu aveva dato dei compiti a tutti e assegnato arbitrariamente gli spazi abitativi, e guarda caso nel Blocco di Bernard non c’era nemmeno una donna di aspetto gradevole. C’era chi sosteneva che il bastardo si fosse creato il suo bell’harem personale nel Blocco 2, dove le aveva mandate praticamente tutte. L’unico modo di incontrare una giovane donna, in quella fottuta colonia, era incontrarla per caso andando nello Spiazzo, ma a Bernard non era mai capitato.
C’era anche chi sosteneva, anche se lo diceva a bassa voce, che il Blu avesse delle scorte che teneva sotto chiave, di materiali e cibo, ad uso prettamente personale.
Bernard non sapeva se crederci. Sapeva poco dei Blu, solo che erano dei tizi (o forse dei robot umani) che sapevano pilotare le navi e in teoria dovevano fare da capo alle missioni di colonizzazione. Aveva visto questo Aaron Marecalmo (che poi… che nome del cazzo era?) una volta sola, al momento del suo imbarco; poi non era più stato considerato degno di attenzione.
D’un tratto Bernard si bloccò, con l’attrezzo a mezz’aria. Stava lavorando in uno dei tunnel che collegavano i vari blocchi e proprio in quel momento gli era passata accanto una creatura incantevole.
Non era molto alta, proprio come piacevano a lui che era un omone, e aveva una cascata di capelli biondi che le nascondevano parte del viso. Il suo corpo snello, grazioso e sexy, scivolava nella gravità leggermente più alta di Emme V mentre quel sedere ondeggiante sembrava dire “prendimi!”. Quant’era che non vedeva uno spettacolo così? Sulla Terra era normale, roba da tutti i giorni, ma lì… non si era mai reso conto di quanto bello fosse il corpo di una donna, fino a quel momento.
Posò l’attrezzo e la seguì.
Lei prese la via per lo Spiazzo, uscì “all’aria aperta”, che poi aperta non era, e andò subito incontro a due tizi dall’aria spocchiosa che la accolsero con baci e abbracci. Gli parve di cogliere il suo nome: Lilli.
Bernard si avvicinò, finché i due non dovettero accorgersi di lui e lo fissarono, portando anche la ragazza a girarsi.
Non poteva avere più di ventidue anni, un bel visino chiaro incorniciato da ciocche bionde con un naso leggermente all’insù, e due fianchi fantastici.
«Ciao» le disse, «mi chiamo Bernard.»
Lei lo guardò prima con stupore, poi fece una smorfia disgustata e arretrò di due passi, finendo contro il più alto dei due zimbelli che le circondò le spalle con fare protettivo.
«Non voglio mica morderti, sai» tentò di scherzare lui, facendo buon viso. E quando lei non rispose: «Non è educazione presentarsi?»
«Piacere, amico» si intromise lo zimbello alto. «Io mi chiamo…»
«Non l’ho chiesto a te, zimbello del cazzo.»
Quello lo ammutolì e Bernard ne fu soddisfatto. «Ascolta dolcezza» disse ancora rivolto alla giovane, «non sono mica qui per farti del male… Volevo solo sapere come ti chiami. Nel mio Blocco di cioccolatini come te non ce n’è nemmeno uno, sai. È da quando ho lasciato la Terra che…»
«Senti, perché non ci lasci in pace?» proruppe Lilli di colpo. «Io e i miei amici stiamo benissimo qui da soli. Grazie di tutto!»
Bernard rimase in silenzio per un po’, senza muoversi di un passo.
«Forse è meglio che ci spostiamo noi, che dici?» tentò lo zimbello alto, senza guardare Bernard. «Proviamo…»
«Tu fatti i cazzi tuoi, capito?» lo minacciò Bernard facendo un altro passo avanti.
«Altrimenti che cosa fai?» strillò allora la ragazza, stupendolo. «Brutto ciccione puzzolente senza…»
Lo schiaffo volò senza che Bernard se ne rendesse conto. Non tanto forte, solo abbastanza da farle fare una bella capriola nella polvere; nel giro di due giorni non sarebbe rimasto nemmeno il livido. Gli dispiaceva, naturalmente, e se non fosse stato così stanco probabilmente l’avrebbe evitato. Ma Bernard ere stanco. Era stanco perché aveva lavorato con turni sfiancanti e senza riposo per giorni interi, mentre questa smorfiosetta e i suoi amici se ne stavano lì a godersela perché pensavano di essere più intelligenti. «Senti un po’, piccola stronza» le disse. «Io volevo solo sapere il tuo nome. Mi sono comportato in maniera educata, mi pare. Allora perché non puoi…»
Doveva aver ricevuto un colpo alla testa, di quelli forti. Lo capiva perché improvvisamente stava barcollando e non riusciva a ritrovare l’equilibrio. I suoi occhi vedevano il terreno ma era come se fossero velati di rosso; non sentiva dolore ma nemmeno alcun suono. Chi l’aveva colpito? Il secondo tizio! Sì, eccolo. Ora lo vedeva. Aveva in mano una specie di bastone e lo guardava con astio crescente mentre gli alti due guardavano lui, spaventati.
Bernard riuscì finalmente a rimettersi dritto e a guardarli, perdeva sangue dalla testa, gli pareva. Quelli lo fissavano sbigottiti. Poi sentì una scarica, molto forte, all’altezza della nuca, e tutto si spense.

Oggi, mio malgrado, sono dovuto intervenire per sedare un tentativo di aggressione, perpetrato da uno dei coloni ai danni di inermi colleghi. L’uomo, un lavoratore, è ora ricoverato nel Blocco Medico con un forte e grave trauma cranico a cui si aggiungono le deficienze cardiocircolatorie causate dal mio storditore elettrico.
A questo punto della crescita della colonia, ogni uomo abile e forte è indispensabile alla riuscita dell’impresa e mi rincresce poterne contare uno in meno, tuttavia ritengo molto più allarmanti le conseguenze che questo evento, come le mie azioni, avranno sul morale dei coloni e sulla loro propensione alla scissione in fazioni estremiste e bellicose.
Ritengo, ora, che la mia scelta di isolare e proteggere la componente femminile della popolazione sia stato un grave errore. Devo constatare purtroppo che l’assenza di questo fondamentale elemento stia portando nella colonia una forte degenerazione, di cui gli eventi recenti sono lampante prova.
L’opzione ormai è solo una: permettere la libera circolazione delle donne in età fertile, sperando che questo basti a gettare acqua sui nervi incandescenti di parte della popolazione, e istituire una forza d’ordine pubblico che vigili sulla colonia. Questo sottrarrà ampie risorse allo sviluppo e allungherà i tempi di adattamento in quantità che non sono pronto a calcolare, ma l’alternativa potrebbe rivelarsi peggiore.
Individuerò le reclute fra la popolazione maschile in età adulta, scegliendo coloro che riterrò meno propensi alla degenerazione, possibilmente padri e mariti.

È stata portata alla mia attenzione una proposta: di includere anche personale femminile all’interno delle nuove forze d’ordine pubblico.
Motivazione: la necessità di garantire anche alla donna un ruolo attivo nello sviluppo della colonia, promuovendone l’emancipazione e l’autonomia.
Dopo lunghe ponderazioni ho ritenuto questa proposta sufficientemente saggia da essere accolta.

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