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Un nome a caso
È molto probabile, e lo dico da esperto, che quando Sapkovski decise di chiamare il protagonista di quella che sarebbe diventata una delle saghe fantasy più lette, guardate e giocate di tutti i tempi Gerealt di Rivia, abbia semplicemente scelto un nome a caso.
Fa specie pensarlo, sapendo che il nome che oggi tutti i geek, nerd, gamers, cosplayers e perfino un po’ di gente normale si diverte a pronunciare continuamente è tale per un vezzo del caso.
Sapkovski stesso lo ammette in uno dei cinque libri della saga principale, quando altri personaggi chiedono conto a Geralt del perché si chiami così (i witcher si scelgono il nome da soli), e lui sostanzialmente risponde che lo ha scelto perché suonava bene (piccolo spoiler, perdonatemi…).
«Questo è sicuro.» Geralt calmò Rutilia, che recalcitrava. «Ma per essere sincero preferirei non incontrarli.»
«Eppure sono tuoi conterranei, strigo» disse Regis. «Ti chiami pur sempre Geralt di Rivia.»
«Errore» ribatté lo strigo. «Sono io che mi faccio chiamare così, perché è meglio. Il nome proprio con una simile aggiunta suscita maggiore fiducia nei miei clienti.»
Il vampiro sorrise. «Capisco. Ma perché hai scelto proprio Rivia?»
«Ho tirato a sorte tra alcuni bastoncini contrassegnati da nomi che suonavano bene. A suggerirmi questo metodo è stato lo strigo mio precettore. Non subito. Solo dopo che avevo deciso di assumere a tutti i costi il nome di Geralt Roger Eryk du Haute-Bellegarde. Vesemir lo riteneva ridicolo, pretenzioso e cretino.»
Eppure quel nome ora è famosissimo, perfino più famoso di quello del suo autore e della saga che lo vede protagonista, nonostante non compaia mai nei titoli dei singoli volumi. Non tutti conoscono Sapkovski, quasi nessuno ricorda i titoli dei singoli libri e la saga di per sé non ha un vero nome (a parte banalmente The Witcher, ma solo i giochi e le serie in effetti si chiamano così), però tutti conoscono Geralt di Rivia.
E c’è un motivo…
Come ha fatto
Un consiglio per chiunque sia in dubbio se cominciare a leggere questa saga: niente panico.
Già, perché diversamente da tutte le altre questa comincia con dei semplicissimi racconti. Non un mattone di mille pagine o una origin story più lunga e complicata della storia vera, ma racconti.
Geralt di Rivia, stando a fondi storiche, fa la sua prima apparizione nel lontano 1985 su un rivista letteraria polacca in un racconto intitolato Wiedźmin, Witcher (o Strigo, in italiano), e da lì inizia la sua lunga ascesa verso le vette del successo.
Io credo che più che l’ambientazione (si tratta del classico fantasy, con tutti i crismi e i riferimenti alla ormai iper-sviscerata mitologia nordica fatta di maghi, elfi, nani e compagnia cantante) o la storia in sé (di un tizio che va in giro a uccidere mostri per soldi e per questo è odiato e temuto da tutti) chi veramente abbia magnetizzato e catalizzato l’attenzione e l’ammirazione del pubblico mondiale di lettori e giocatori sia proprio lui, Geralt.
In realtà non è così facile da spiegare… probabilmente si tratta di quel misto di tamarraggine (Geralt è uno che quando vuole spacca e lo fa con stile) e burbero sentimentalismo (è uno che cerca sempre di fare la cosa giusta ma brontolando in continuazione) che creano l’amalgama vincente.
Geralt di Rivia è uno strigo, cioè un bambino prelevato alla sua famiglia quando era in fasce e trasformato in un mutante, poi addestrato e istruito per uccidere mostri. Viaggia per il mondo, di città in città e di villaggio in villaggio, sperando di trovare qualche taglia o richiesta di aiuto, che si tratti di un contadinello a cui una Kikimora continua a mangiare le capre o della figlia di un re che è stata maledetta e trasformata in una Strige, nella speranza di racimolare due soldi per tirare avanti. È cinico di natura ma sentimentale quando meno te lo aspetti, burbero ma dal cure tenero e piuttosto donnaiolo quando ne ha l’occasione. E ha la tendenza a trovarsi invischiato, senza volerlo o addirittura dopo aver fatto di tutto per cercare di evitarlo, nei più impensabili complotti e piani suicidi nel nome di qualche ideale in cui lui non crede minimamente, dalla maga che vuole rinchiudere un jinn in una bottiglia per esprimere tre desideri al diavoletto che si finge il fantasma di un pozzo per spaventare i contadini e rubar loro da mangiare per portarlo agli elfi, nascosi nel bosco perché gli umani li hanno trattati male.
Sapkovski ha una visione del mondo piuttosto cinica, probabilmente autobiografica leggendo quelle poche interviste che raramente concede, ma nel suo scrivere la affronta in quel modo un po’ tragicomico che ispira inevitabilmente empatia (verso il personaggio se non verso se stesso): nel corso delle sue avventure Geralt viene raramente ringraziato, quasi sempre incolpato di tutto e costantemente redarguito e bacchettato da maghi e maghe (soprattutto maghe) che pensano di saperla lunga ma poi finiscono col cacciarsi nei guai e aver bisogno del suo aiuto per uscirne, salvo poi sostenere che sia stato tutto merito loro (o colpa sua, a seconda dei casi).
Un personaggio del genere piace, è inevitabile. Al punto che la storia in sé a volta passa addirittura in secondo piano.
Se poi a tutto questo aggiungiamo i soliti nani leali e simpatici che picchiano duro quando serve e nel tempo libero giocano a Guglia dicendo una parolaccia ogni mezza frase, gli elfi perennemente incazzati con tutto e con tutti e un gruppo di amici/compagni tra cui un bardo imbranato che non serve mai a niente a parte a parlare troppo quando c’è da stare zitti… ecco che abbiamo il cocktail perfetto.
Ah, e poi c’è anche il vampiro alcolizzato.
«Sangue?» Regis deglutì. «No. Se si tratta di sangue, no, grazie. Ma se voi ne avete voglia, non fate complimenti.»
Geralt, Milva e Cahir mantenevano un silenzio pesante, di tomba.
«So qual è il problema, Ranuncolo» disse lentamente Regis. «E lascia che ti tranquillizzi. Sono un vampiro, sì. Ma non bevo sangue.»
Il silenzio divenne pesante come piombo.
Però Ranuncolo non sarebbe stato Ranuncolo, se non avesse aperto bocca. «Devo aver capito male» disse in tono apparentemente non curante. «Non parlo di…»
«Io non bevo sangue» lo interruppe Regis. «Da un pezzo. Mi sono disabituato.»
«Come sarebbe “ti sei disabituato”?»
«Così, semplicemente.»
«Davvero, non capisco…»
«Scusa. È una faccenda personale.»
Oltre, naturalmente, alla storia d’amore, con tutti i tradimenti, le scappatelle e i litigi a suon di oggetti scagliati con forza. Oltre a uno strigo che, quando viene il momento di fare la scelta giusta con una donna, non ne azzecca nemmeno una…
Caro amico…
Lo strigo imprecò sottovoce osservando le rune aguzze, uniformi, spigolose, tracciate con energici tratti di penna d’oca, che rendevano a meraviglia lo stato d’animo di chi le aveva scritte. Sentì di nuovo un desiderio incontenibile di provare a mordersi il culo per la rabbia. Quando, un mese prima, aveva scritto una lettera alla maga, aveva riflettuto per due notti di seguito su come cominciarla. Infine si era deciso per un “cara amica”. E adesso veniva ripagato con la stessa moneta.
Il mondo al contrario
Che, diversamente da come potrebbe sembrare di questi tempi (viviamo nell’anno del signore 2020 ed è estate), non è uno slogan politico di opposizione ma una constatazione oggettiva del fatto che Andrzej Sapkovski ha una diversità fondamentale con tutti gli altri autori di fantasy conosciuti: è polacco.
Può sembrare una banalità, ma bisogna sempre ricordare che ogni autore scrive sempre di ciò che conosce.
Perfino in un fantasy dove teoricamente ci si può inventare tutto, comprese le lingue e le usanze dei popoli che si descrivono (dal vocabolario aulico ai più beceri modi di dire), l’ambientazione sarà inevitabilmente un riflesso di come l’autore vede e vive il mondo.
Un fantasy scritto da un americano non è il fantasy scritto da un inglese o da un italiano (anche se noi spesso tendiamo ad emulare gli americani…), semplicemente perché la nostra storia ci ha tramandato dei diversi cliché.
Un esempio su tutti? Nella storia di Geralt i cattivi arrivano da sud.
Nelle saghe classiche e in generale nell’immaginario comune esiste, come ben sappiamo, il mito del grezzo barbaro del nord: bianco di pelle e pieno di cicatrici, largo di spalle, col barbone folto e molto forte perché abituato a sopravvivere nelle steppe gelate. Io non sono uno storico di professione ma credo che questo cliché derivi principalmente dalla nostra storia antica: dai Romani che dopo aver conquistato a fatica le terre dei “barbari” franchi e germanici ne abbiano decantato il coraggio e la ferocia. E questa specie di tradizione si trasferisce inevitabilmente anche nei nostri romanzi e racconti.
Nella storia di Sapkovski invece gli invasori arrivano, come dicevo, dal sud, dall’Impero di Nilfgard, che le popolazioni dei tanti e divisi regni del nord chiamano i Neri (the Black Ones). E questo ci sta, visto che rispetto al nord/est Europa noi mediterranei tendiamo ad avere una pelle abbastanza scura.
Nilfgard viene descritto come un esercito molto ben disciplinato e letale, ma governato da un’aristocrazia capricciosa ed estremamente attaccata all’etichetta. Saranno mai i Romani visti da un altro punto di vista?
E il bello è che come italiani ci facciamo pure bella figura! Altro che pizza, birra, mandolini e vespette che vanno a tre all’ora… qui siamo i cattivoni che vengono a conquistare e spaccano tutto.
Forse vale la pena di leggere la saga di Sapkovski solo per questo!
Piccolo inciso piuttosto divertente (e gratificante): il buon Andrzej deve aver qualcosa di particolare contro i poveri francesi. Perché sostanzialmente li rappresenta come una specie di regno vassallo (il ducato di Toussaint) annesso all’Impero e confinante con i regni del nord, dove sostanzialmente esistono solo due cose: vigneti e cavalieri inutili che fanno a gara a chi pronuncia il voto più improbabile e dicono sempre la stessa frase, continuamente e con estrema convinzione.
«Sul mio onore! Grazie mille per l’aiuto.»
«Grazie a voi. In fondo siete voi a essere venuto in mio soccorso.»
«Davvero? Quando?»
Non ha visto niente, pensò Geralt. Non mi ha neppure notato attraverso i fori di questa marmitta di ferro.
«Come vi chiamate?» chiese il cavaliere.
«Geralt. Di Rivia.»
«Il vostro blasone?»
«Non c’è tempo per l’araldica, signor cavaliere.»
«Sul mio onore, avete ragione, prode cavaliere Geralt.» Trovata la spada, l’uomo si alzò. Lo scudo ammaccato – come la gualdrappa del cavallo – era decorato da un motivo a scacchi obliqui rosso-dorati in cui si scorgevano le lettere A e H alternate. «Non è il mio stemma di famiglia» spiegò ronzando. «Sono le iniziali della mia suzerain, la duchessa Anna Hanrietta. Mi faccio chiamare Cavaliere della Scacchiera. Sono un cavaliere errante. Non mi è dato rivelare il mio nome né il mio blasone. Ho fatto un voto cavalleresco. Sul mio onore, grazie ancora dell’aiuto, cavaliere.»
«Il piacere è tutto mio.»
Uno dei banditi atterrati gemette e fece frusciare le foglie. Il Cavaliere della Scacchiera balzò e lo inchiodò a terra con un potente colpo.
«Sbrighiamoci» disse il cavaliere. «Questi ribaldi infuriano ancora nei paraggi. Sul mio onore, non è ancora giunta l’ora di riposare!»
«Giusto» convenne Geralt. «La banda imperversa nel bosco, uccide pellegrini e druidi. I miei amici sono nei guai…»
«Scusate un momento.»
Un altro brigante dava segni di vita. Fu inchiodato anche lui con forza.
«Sul mio onore» disse il Cavaliere della Scacchiera ripulendo la spada dal muschio. «Questi farabutti sono duri a morire! Non stupitevi, cavaliere, se finisco i feriti. Sul mio onore, una volta non lo facevo. Ma questi birboni tornano in salute talmente in fretta che un uomo onesto non può che invidiarli. Da quando mi è capitato di avere a che fare tre volte di seguito con lo stesso furfante, ho cominciato a finirli con maggior scrupolo. Una volta per tutte.»
«Capisco.»
«Vedete, io sono un cavaliere errante. Ma, sul mio onore, non sono mica matto! O, ecco il mi cavallo. Vieni qui, Bucefalo!»
Touché 😀
Mi vengono in mente tanti altri personaggi che per fama hanno surclassato le loro storie e anche i loro autori: Don Quixote, Sherlock Holmes, Hercule Poirot, King Arthur, James Bond, Winnie the Pooh, Gandalf, Sandokan, solo per nominarne alcuni tra i più disparati.
OK, leggeremo anche di Geralt di Rivia, e bravo Davide!!!
[…] per Geralt di Rivia (ne parlo qui), anche Bartimeus è un esempio di “personaggio che fa la storia”, con una piccola differenza: […]